Un luogo comune ci vuole sempre positivi e brillanti. Un altro luogo comune vede ogni critica al proprio operato come un atto di ostilità.
Un luogo comune ci vuole sempre positivi e brillanti. Un altro luogo comune vede ogni critica al proprio operato come un atto di ostilità. Ma un concreto ed effettivo «unconditional positive regard» – così lo chiamava l'analista Carl Rogers, che lo pose al centro della sua client-centered therapy – impone non solo realismo, ma anche capacità critica e autocritica.
Al di là del luogo comune o dell'autopercezione, è forse per mancanza di questo sguardo positivo che siamo attratti dai leaders che enfatizzano la propria capacità di dire di no fino al limite dell’ostilità? Le cose sono, come sempre, più complesse di quanto appaiano.
Eileen Y. Chou, che insegna Public Policy alla Batten School of Leadership dell’Università della Virginia, ha condotto una serie di esperimenti per capire le ragioni. Perché il naysayng, l’atto di negare, confutare o criticare (senza per questo ferirlo) un altro soggetto, è diventato così popolare da incarnare, per alcuni, un modello esemplare di leadership? Questo fatto sembra contraddire la tendenza che, nella letteratura manageriale, descrive leader incoraggianti, ottimisti, benevolenti. Per Eileen Y. Chou il naysayng interpreta una sorta di segnale di potenza. Un tratto qualitativo dell’executive che, in termini istintivi, leggiamo come segno distintivo di competenza e di coraggio. La causa, spiega Eileen Y. Chou nel suo articolo - “Why we’re drawn to leaders who enphasize the negative”, pubblicato nel gennaio 2019 sull’Harvard Business Review, sembra radicarsi nella psicologia umana e in un fattore decisivo che sa attivarne i codici più profondi: l’indipendenza. Chi si oppone è percepito, per sua stessa natura, come “indipendente” e libero da vincoli nel giudizio.
La tentazione, per chi opera a livelli executive, potrebbe essere accentuare il naysayng per accrescere il proprio carisma e il proprio potere. Ma ci sono buone ragioni per essere cauti. In primo luogo, spiega Chou, la nostra percezione del potere di un leader si evolve nel tempo. Chi inizialmente tende a premiare l’agency, ossia l’efficacia di azione di un decisore, nel corso del tempo, in assenza di agility della stessa, tende a ripensare il proprio giudizio fino a capovolgerlo. Il potere di “dire di no”, pertanto, non può essere indiscriminato e già sul medio periodo perde la propria efficacia strategica, diventando un mero espediente tattico. Occorre dunque ridefinire i concetti di “negativo” e “positivo”, passandoli attraverso la lente del pragmatismo: ci sono “no” che sono affermazioni e “sì”, che suonano come negazioni; ed è lì che emerge la forza positiva del “saper dire no”: non un “no” ostile ma piuttosto collaborativo, concretamente strategico, come caratteristica dell'agility dirigenziale e, conseguentemente, della capacità di “saper accettare anche i no” come peculiarità della flexibility del team direzionale.
Chou, E. Y.