Nella sua The Theory of Moral Sentiments, pubblicata nel 1759, il padre dell’economia classica Adam Smith delinea un’idea di società fondata sui sentimenti, ossia sulla capacità interumana di condividere e capire le emozioni e i sentimenti dell’altro.
Nella sua The Theory of Moral Sentiments, pubblicata nel 1759, il padre dell’economia classica Adam Smith delinea un’idea di società fondata sui sentimenti, ossia sulla capacità interumana di condividere e capire le emozioni e i sentimenti dell’altro.
«Per quanto egoista si possa ritenere un uomo – scrive Smith - ci sono evidenti principi nella sua natura per cui è interessato alle sorti del prossimo e che gli rendono indispensabile l'altrui felicità, benché egli non ne guadagni nulla se non il piacere di contemplarla». Per Adam Smith questa capacità di interessarsi alle sorti dell’altro ha un nome: simpathy, simpatia. Smith distingue sympathy da compassion o pity. Alla base della ricchezza delle nazioni – come recita il titolo dell’opus majus di Smith, An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations pubblicata il 9 marzo 1776 – e del pensiero economico moderno c’è, dunque, quella capacità di costruire relazioni interpersonali in un sentire l’altro che, oggi, con un termine divenuto corrente chiamiamo empatia.
Termine modellato sul tedesco Einfühlung e coniato agli inizi del Novecento dallo studioso di psicologia empirica Theodor Lipps, empatia è «una serie di atti nei quali si coglie l’esperienza vissuta» propria e altrui. Attraverso quelli che la filosofa Edith Stein chiamerà «atti percettivi», questa doppia esperienza – la mia, la tua – si pone comune risonanza diventando esperienza comune (la nostra esperienza).
Oggi l’empatia è considerata un tratto fondante della cosiddetta emotional leadership. Nel 1998, sulle pagine dell’Harvard Business Review, l’influente psicologo di Harvard Daniel Goleman pubblicò un articolo col titolo “What Makes a Leader?”. La tesi di Goleman era tanto semplice, quanto non scontata: possiamo dirigere con il cuore. Il nostro cervello opera su due registri, entrambi molto potenti. Il registro della cognizione e il registro dell’emozione. Solitamente, il secondo prevale sul primo, battendolo sul tempo. Ma c’è un modo per non considerare l’emozione come uno scacco rispetto alla cognizione? Saper riconoscere e sviluppare ciò che Goleman ha chiamato emotional intelligence.
Fra tutte le caratteristiche e tutte le manifestazioni di quest’intelligenza emotiva, l’empatia è forse la più semplice da individuare, ma è anche la più ostica da far accettare. «La parola stessa “empatia”», osserva Goleman, «appare fuori posto nel vocabolario dell’uomo d’affari: che cosa può avere a che fare l’empatia con la dura realtà del mercato?». Empatia, però, non significa arrendevolezza, svenevolezza, commiserazione propria o altrui. In questo senso, già Adam Smith aveva messo in guardia dal non confondere la simpatia, che è una forma in nuce di empatia, con la compassione e la pieta.
Empatia, scrive Goleman, «non significa nemmeno che un leader debba accantonare le proprie emozioni per lasciare spazio a quelle altrui: sarebbe un incubo». Empatia, al contrario, significa «prendere in considerazione e soppesare i sentimenti dei dipendenti». Quei sentimenti che, assieme a molti fattori, non ultimo il design e la capacità concreta di “stare” in un progetto, devono diventare parte integrante del processo decisionale. L’empatia deve entrare in azione, non stare in fondo al cassetto delle buone pratiche.
L’empatia è importante per un leader, per tre ragioni: 1) ragione interna: il crescente lavoro in team e in network; 2) ragione esterna: il ritmo di crescente complessità e globalizzazione; 3) questione di fiducia: la possibilità di aggregare e trattenere collaboratori di talento fa leva su questa caratteristica dell’emotional leadership.
Esistono ovviamente dei limiti all’approccio empatico alla leadership nell’ambito executive. Pur essendo cruciale per l’executive leadership, troppa empatia può infatti generare un sovraccarico di responsabilità, in particolare se non è bilanciata da altre componenti dell'intelligenza emotiva. Solo se accompagnata da autocontrollo, sociability e consapevolezza di sé l’empatia può essere un fattore decisivo nella qualità delle scelte e nell’efficazia sistemica delle decisioni.
I leader empatici, infatti, non si «limitano a simpatizzare» con i propri collaboratori. Fanno di più: accrescono le proprie conoscenze grazie alle loro capacità emotive, migliorando così aspetti non quantificabili ma ugualmente cruciali per la vita aziendale e per il business. L’emotional leadership è, al tempo stesso, risposta e rilancio rispetto alle sfide del mondo liquido in cui viviamo; è il driver per attivare una capacità cognitiva e una leadership capace di lavorare in un costante coinvolgimento di flusso (flow).
Agosta, L.
Empathy in the Context of Philosophy
London, Palgrave, 2010.
Langelett, G.
How Do I Keep My Employees Motivated? The Practice of Empathy-Based Management
Austin, Texas, River Grove Books 2014.
Stein, E.
Il problema dell’empatia (1917)
Roma, Edizioni Studium, 2012.